Cronache di una famiglia in confinamento (a beneficio di parenti e amici).
In questi giorni di estrema emergenza sanitaria molti amici spagnoli mi chiedono come sta la mia famiglia in Italia e, viceversa, molti amici italiani vogliono sapere come sia la situazione qui a Badalona.
Inizialmente non volevo dedicare spazio su questo sito a notizie di attualità, ma la gravità della situazione è tale che farò uno strappo alla regola, per informare tutti in un colpo solo.
Io e la mia famiglia (mia moglie Dori, mia figlia Sara di 12 anni, mio figlio Nicola di 5, più la gatta Leo e la tartaruga Mar al seguito) ad oggi, 21 marzo 2020, stiamo bene. Siamo confinati in casa dal pomeriggio di giovedì 12 marzo. Da allora siamo usciti soltanto per buttare lo sporco e una volta per comprare il pane. Facciamo la spesa online e - se non ci saranno problemi di connettività e di rifornimenti - continueremo così fino a nuovo avviso.
La vita quotidiana nel nostro appartamento di circa 75 metri quadrati senza terrazzo né giardino non è sempre facile. Io ho la fortuna di essere più che abituato a questo regime di segregazione, da un lato perché telelavoro da oltre dieci anni, dall’altro perché sono fondamentalmente misantropo. Come diceva qualcuno che non ricordo, «nutro un’enorme fiducia nell’umanità, ma pochissima nei confronti dei singoli».
Se io dunque mi arrabatto e mantengo le abitudini sedentarie di sempre, per Sara, che svolge attività fisica quattro giorni alla settimana (fra danza, pattinaggio e nuoto) la reclusione forzata è più dura di quello che lei lascia trasparire. Disegna molto, segue un’infinità di corsi e tutorial online, accompagna mia moglie nelle sessioni di yoga o ginnastica.
Anche Dori, di professione maestra elementare, ha dovuto rinunciare a un’agenda piuttosto fitta: tai-chi, meditazione, danza Bollywood, lezioni d’inglese (benché in qualche caso si stiano organizzando con sessioni online sostitutive). Senza contare che è abituata a stare a stretto contatto con bambini, genitori e colleghi, contatto che ha dovuto interrompere da un giorno con l’altro.
Infine Nicola, il quale - pur non potendo afferrare razionalmente la gravità della questione - si mostra piuttosto insofferente e lo dimostra con un grado di «ribellione» un po’ più alto del solito.
In tutto questo siamo fortunati, perché - appunto - io posso continuare a gestire la mia agenzia di traduzioni come farei dall’ufficio (almeno finché continua ad arrivare lavoro), mentre Dori, dipendente pubblico, continua a percepire lo stipendio. Lavoratori di altri settori, soprattutto quello sanitario, sono sottoposti a un livello di stress ben maggiore. E non cito neppure tutti coloro i quali sono stati licenziati o messi in cassa integrazione perché la loro azienda ha chiuso o l’attività è stata paralizzata come conseguenza della serrata globale.
Per quanto riguarda i miei familiari a Brescia, il bollettino medico è tutto sommato clemente. Per ora i miei genitori stanno bene, sono rinchiusi in casa da ancor prima che uscissero le ordinanze, così come mio fratello e la sua famiglia. Purtroppo alcuni parenti sono risultati positivi al virus (per ragioni di riservatezza non li cito), ma anche in quei casi sembra che i momenti più critici se li siano lasciati alle spalle. Lo dico ovviamente sottovoce.
Negli ospedali della città la situazione è molto complicata, quasi al limite. Lo stesso avviene a Bergamo (che dista una cinquantina di chilometri) e in molte altre zone della Lombardia, uno degli epicentri di questa epidemia. Basta sfogliare i giornali locali per vedere le condizioni estreme in cui opera il personale sanitario e le cifre catastrofiche dei decessi.
Dopo i fatti, qualche considerazione. Siamo ormai tutti virologi, epidemiologi e aspiranti statisti. Non posso lasciarmi scappare l’occasione.
Qui a Badalona (e da quanto leggo sui giornali spagnoli, in tutto il resto del paese) ho percepito, anche fra i miei conoscenti, una certa superficialità e sottovalutazione del problema. Con gli occhi di chi sta a cavallo di due paesi, dico che forse sarebbe stato il caso di allarmarsi e di bloccare tutto con un po’ più di anticipo. Tuttavia, dinanzi a un evento mai vissuto prima mi rendo conto che è arduo per chiunque compiere le scelte «giuste».
Noto con una certa sorpresa e una punta di amarezza che molti non hanno ancora capito che cosa abbiamo di fronte. Ancora fino a pochi giorni fa si vedeva molta gente in giro, a passeggiare, a intrattenersi. Non c’è crisi che valga: l’egoismo, ma ancor più l’imbecillità, parrebbe il tratto distintivo dell’uomo.
Sono senz’altro lodevoli le iniziative d’appoggio e solidarietà al personale sanitario, i disegnetti alle finestre, gli applausi sincronizzati, i tweet con gli emoji e i messaggi affettuosi. Sarebbe bello che alle prossime elezioni tutte queste persone si ricordassero quali partiti hanno depauperato la sanità pubblica e quali invece l’hanno difesa. Ma non ci conto più di tanto.
Alcuni affermano che questa crisi cambierà per sempre il nostro stile di vita. Me lo auguro, ma non ne sono molto convinto. Se dev’essere necessaria una pandemia affinché io e il mio vicino di casa cominciamo a salutarci, ecco, allora c’è qualcosa d’intrinsecamente sbagliato nel modo in cui abbiamo plasmato la società. Riusciremo a raddrizzarla? Mah.
Questi momenti, da un lato di estrema confusione e dall’altro di blocco e di riflessione forzosa, hanno messo in evidenza un fatto che molti ancora non avevano afferrato nella sua interezza: Internet è la più grande invenzione del Novecento. Non lo dico io, si badi, ma Rita Levi Montalcini, intervistata su L’Unità il 31 dicembre 2008 da Concita de Gregorio. Riporto qui la domanda e la sua risposta, perché spesso viene citata erroneamente:
Qual è stata a suo parere la più grande invenzione o scoperta del secolo? Un farmaco? Uno strumento di diagnosi? «Ma no, è stata senza dubbio Internet. L’informatica. I nuovi Magellano dell’era digitale. La comunicazione globale. Ma come mai mi chiede questo, lei non usa Internet?»
Al di là del sollievo dato dai siti di streaming e dai vari social network in questi giorni di solitudine e preoccupazione per i propri cari, senza la rete non esisterebbe il coordinamento fra uomini di scienza, non ci sarebbero le condivisioni di dati, non ci sarebbero tutte quelle misure messe in atto per continuare a erogare servizi di base (l’istruzione, per dirne uno solo, pur con tutti i suoi limiti, vedi prossimo punto).
Parlo soltanto per quello che ho visto e vedo. Moltissimi professionisti di vari settori hanno avuto molte difficoltà al momento di dover registrare una riunione, condividerla come video, usare strumenti di streaming o collaborativi, più in generale quando si è trattato di dotare il proprio dipartimento o ufficio di strumenti per il lavoro a distanza. Ho sentito di persone costrette a dover tornare in sede, in momenti già critici, solo per finire di allestire connessioni remote o altri sistemi di accesso. Senza contare i numerosi insegnanti che suppliscono con la fantasia e la creatività a una mancanza di conoscenze informatiche che dovrebbe spaventare.
Queste carenze hanno come risultato anche la leggerezza con cui vengono allestiti sistemi a cui accedono dei minori senza alcuna coscienza dei rischi. Penso alle tante password «123456» o alle registrazioni obbligate su piattaforme di aziende private che - grazie al virus - avranno tutti i dati dei nostri bambini. Sono la persona meno paranoica del mondo in questo senso. Non credo che un hacker venga a rubare proprio i miei (i loro) di dati, ma non posso fare a meno di provare un certo brivido quando mi rendo conto che questo tipo di problemi non viene minimamente affrontato da chi dovrebbe quanto meno esserne a conoscenza.
Sulla tenuta della rete fisica non posso pronunciarmi, non ne ho gli strumenti. Spero soltanto che regga. E spero vivamente che questa esperienza convinca i legislatori che Internet dev’essere considerato un diritto basico, come l’accesso all’acqua o all’elettricità. In questo senso non posso che invitare tutti a iscriversi (è gratis) al capitolo locale della ISOC, l'Internet Society, la cui visione è proprio
The Internet is for everyone. («Internet è per tutti.»)
«Fino a qui tutto bene». Prossimamente altri aggiornamenti.