Piccioni

Piccioni

Racconto breve

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Racconto breve datato 1997.

L’uomo dei piccioni abita in un giardinetto pubblico di fronte a casa mia, un asfittico polmoncino piazzato dagli architetti comunali fra i condomini come atto di pentimento: quattro alberelli spogli in circolo, due cespugli anneriti dallo smog e una panchina trafitta da cuori trafitti.

L’uomo dei piccioni non teme il freddo. Vive un’unica lunga stagione da settembre a maggio ravvolto in un lacero cappotto grigio spigato. Con il primo sole lo ripone in una busta di plastica insieme a una bambola senza gambe e a un pentolino verde smaltato, accogliendo le giornate tiepide con lo stesso devoto rispetto che si riserva alle grazie divine.

Ogni giorno l’uomo dei piccioni getta briciole a decine e decine di uccelli che hanno smesso di temerlo da tempo immemorabile. Da un sacchetto di carta prende riso e pane raffermo, li sbocconcella e se li fa cadere ai piedi in modo che i piccioni si avvicinino a lui il più possibile. Qualcuno osa persino beccare dal suo palmo. L’uomo si muove tra gli animali come se galleggiasse sui loro fragili corpi, simile a un pezzo di legno secco sul mare appena increspato. Degli uccelli beoti segue il fluttuare disordinato, asseconda i saltelli caotici, seda le dispute attorno a un chicco elargendone un secondo, dona loro il necessario e il superfluo senza rimpiangerlo per sé. E’ un idolo spettrale e incompreso, eretto per caso, adorato tra gli schiamazzi, atteso con ingordigia.

Dall’abbaino della mansarda in cui vivo lo guardo ogni giorno compiere quei prodighi gesti serio e contegnoso come se seguisse un rituale. E forse in cuor suo non fa altro che recitare una preghiera occulta rivolta a dei sconosciuti, lari improbabili che gli assicurano eterne speranze in cambio di sacrifici di pane.

Osservo la scena ritto su una sedia, per abbracciare con un solo sguardo tutto il giardino. Contemplo lo sbattere convulso di penne e piume grigie azzurre bianche, le pupille istupidite, i becchi aguzzi che colpiscono a vuoto e non so se vedo tutto realmente o se fra i piumaggi multicolori rivedo me stesso, i miei sbagli, i progetti incompiuti, le ambizioni dimenticate. Eccoli laggiù i miei ideali: nella folla al caldo a lottare il meno possibile per un pezzo di pane duro.

E se invece fosse l’uomo dei piccioni il mio doppelgänger? Mi sembra di conoscere la sua storia. Passeggiando alla ricerca di sé egli non soltanto ha smarrito la strada, ma ha addirittura sbagliato senso di marcia. Arrancando a ritroso, contro corrente, ha perso le proprie tracce, ed è ora incapace sia di voltarsi sia di proseguire, poiché niente ha dietro di sé che glielo permetta, nessun segnale, nessun ramo spezzato che indichi la via, nessun sassolino gettato sul sentiero che segni la strada per casa. E niente ha davanti che valga la pena di essere inseguito, niente da raggiungere. È ora ingabbiato fra gli alberi e io non meno di lui.

Passa il camion della nettezza urbana e all’unisono i piccioni si levano in volo, stampando sull’asfalto cinquanta ombre come stelle sulla bandiera americana, come incastri in un quadro di Escher. Anche per oggi l’uomo dei piccioni ha esaurito il suo compito. Può ritirarsi nel tabernacolo del sonno, rannicchiandosi sulla panchina a covare il sacco dei suoi beni, il berretto di lana calcato sugli orecchi, le mani giunte sul petto. Mi sembra un bizzarro pirata addormentatosi sopra il tesoro durante il turno di guardia. Mio dovere: sorvegliare il sorvegliante.

Da trentasei ore l’uomo dei piccioni dorme sulla panchina verde laccata di brina. Un piccione gli salta sui piedi, sulla schiena, sulla testa; sbatte le ali, becca un chicco di riso nell’erba, vola via.

Faccio una telefonata. Arriva un’autoambulanza. Due uomini in divisa scendono dalla vettura, ridacchiano, imprecano al loro lavoro. Si accostano all’uomo, lo toccano, lo tastano, lo scuotono. Uno dei due ritorna all’ambulanza, apre il portello, estrae il lettino d’alluminio. Con calma, senza nulla da perdere, i due lettighieri afferrano l’uomo dei piccioni, lo caricano sulla barella, lo stivano nel retro. Mettono in moto e l’ambulanza si infila nel traffico a lampeggiante spento come inghiottita da una pianta carnivora. I piccioni volano irrequieti da un tetto all’altro, scomposti, deliranti.

Chiudo la finestra. In casa fa freddo ora. Dalla credenza del cucinino prendo un sacchetto di pane avanzato. Dall’armadio un vecchio loden che non metto mai. Rumorosamente reclamano il cibo i piccioni.

Sto arrivando.

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