Progetto Erasmus: 28 anni dopo

Progetto Erasmus: 28 anni dopo

Resoconto di un’esperienza indimenticabile

articoli nostalgia

Ci sono esperienze che lasciano il segno. Il progetto Erasmus è una di quelle.


«Umanista da Rotterdam» era la definizione di un cruciverba che stavo risolvendo qualche giorno fa. Per moltissime persone, fra cui me, Erasmo non è soltanto l’autore dell’Elogio della follia, ma anche (e soprattutto) il nome del progetto di mobilità studentesca più famoso, quello che ha contrassegnato una generazione e ha contribuito alla creazione di una cittadinanza europea, forse più dei trattati.

Il mio soggiorno Erasmus risale al 1994/95. Il progetto come tale nacque a metà del 1987. All’epoca quindi era stato ampiamente collaudato, ma non così diffuso come oggi.

Per me fu un’esperienza determinante. Divenni consapevole del patrimonio culturale che ci accomuna come europei. Fu la mia prima volta fuori di casa per un lungo periodo. Strinsi amicizie che durano tuttora. Tornai più grande.

La sequenza degli eventi che seguono potrebbe non essere esatta. Se sei stato protagonista di qualcuno di essi, usa i commenti per correggermi e aggiungere quello che ricordi. In English, German, or whatever language you speak. Now we have Google Translate! I wish I had it at that time.

Non ricordo perché scelsi di andare a Colonia, in Germania. Credo che la motivazione di fondo fosse che avrei avuto meno occasioni di migliorare il tedesco che l’inglese, le mie due lingue di studio (ero in procinto di iniziare il quarto anno di Lingue e Letterature Straniere alla Cattolica di Brescia).

Alla luce dei fatti, fu la scelta giusta. Il mio inglese è via via migliorato dopo l’università, grazie alle letture e alle interazioni sul lavoro, mentre il livello di tedesco giunse all’apice durante i mesi dell’Erasmus e da allora è andato - ahimè - progressivamente peggiorando.

L’impatto con l’Erasmus fu traumatico.

Prima di partire non ricevetti molto aiuto da parte della mia università d’origine. Giusto un incontro informale con il responsabile del progetto, che mi disse quattro cose veloci senza spiegarmi alcun dettaglio. Qualche compagno che aveva già fatto la stessa esperienza diede qualche dritta a me e alle altre due persone che sarebbero partite in contemporanea con me.

Insomma, ignaro di quasi tutto, il 28 settembre 1994 dopo un volo (il mio primo volo in aereo) insieme a una delle due compagne di facoltà, Paola, mi ritrovo a Colonia senza una sistemazione e senza piani di alcun tipo. Allo sbaraglio.

Non so come feci a partire con tanta incoscienza. Avevo un paio di indirizzi in tasca, e credevo che bussando a quelle porte avrei trovato un alloggio. Non avevo tenuto conto che Colonia era la maggiore città universitaria della Germania e che soffriva di una cronica carenza di sistemazioni per le decine di migliaia di studenti che l’affollavano.

Senza quest’informazione essenziale, avevo fatto scadere tutti i termini entro cui fare richiesta per un posto in un Wohnheim, gli studentati dove si riceve una stanzetta e si condividono bagno e cucina. E trovare una stanza privata si sarebbe rivelato un’impresa.

Dopo lo scalo a Francoforte arriviamo all’aeroporto di Köln-Bonn e spendiamo i primi 50 marchi per un tragitto in taxi. Ci scaricano con le valigie nel bel mezzo di Albertus-Magnus-Platz: qui c’è la sede centrale dell’Università (una delle più antiche d’Europa, fondata nel 1388). Ci guardiamo attorno. Io, pieno di buona volontà, vado a cercare subito l’Ufficio Erasmus.

Da un mio diario dell’epoca:

Cerco l’ufficio Erasmus che, per fortuna, è aperto. È una stanzetta piena di carte, dove le uniche indicazioni riguardanti la nostra università sono affiancate da punti interrogativi e da frasi del tipo «non si sa, da Brescia non arriva mai niente». Sulle pareti pendono cartoline da tutt’Europa, una bandiera della Comunità Europea è infilata in un portadocumenti. La responsabile è una tedesca rossa alta e brutta, dallo spirito d’iniziativa pressoché nullo, che almeno ci fa usare liberamente il telefono e ci lascia portare su i bagagli.

Uno dei nominativi che avevo con me era quello di un parente di un allenatore di pallacanestro amico di famiglia, che viveva a Colonia da venticinque anni. Gli telefono. Dopo un paio d’ore ci viene a prendere in macchina e ci porta a casa sua, dall’altro lato del Reno. Di mestiere fa il meditatore trascendentale. Dormiamo da lui la prima notte, ma il giorno successivo parte per le vacanze, quindi non ci resta che ritornare all’Ufficio Erasmus come anime in pena.

L’addetta ci comunica che i posti nei Wohnheim sono tutti occupati e di camere libere presso privati non ce ne sono. L’unica opzione è di pernottare all’ostello della gioventù per qualche giorno (una settimana al massimo, come da regolamento), sperando di trovare qualcosa nel frattempo. Mi offrono di andare in un Wohnheim di proprietà dell’Opus Dei. Lo vado a vedere, ma l’aria di setta che si respira e il prezzo esagerato rispetto all’offerta m’inducono a rifiutare la proposta.

Nei giorni successivi girovaghiamo esaminando stanze fino a quando, a un appuntamento telefonico (parliamo di epoca pre-cellulare) da una cabina, l’Ufficio Erasmus ci rallegra il pomeriggio dicendoci che hanno trovato una stanza per Paola per un mese e un appartamento di una signora in ferie per una settimana per me.

Mi ritrovo così in un bilocale a due passi dall’università, con vista sulla tangenziale (e con l’odore dello smog che penetra quando si aprono i doppi vetri: mi sembra ancora di sentirlo). Armeggiando con il televisorino del soggiorno, lo spacco, o quanto meno cancello tutti i canali rendendo impossibile la risintonizzazione. Quando me lo fanno notare, esigendo una compensazione, nego tutto. «Italiani brava gente». Ci facciamo sempre riconoscere.

A quel punto ho l’illusione che la fortuna cominci a girare, perché finalmente si libera un posto in uno di ’sti benedetti Wohnheim. Faccio giusto in tempo a dormirci una notte, forse due, quando al mattino mi ritrovo appesa alla porta la notifica di una specie di sfratto (il tedesco burocratico non è mai stato il mio forte). In sostanza, la persona assegnataria della stanza non era autorizzata a subaffittarla, per cui devo sgomberare immediatamente, pena l’intervento della polizia.

Sto per gettare la spugna. Medito di tornare in Italia.

Mosso a pietà, un ragazzo belga di buona famiglia che ho conosciuto a lezione, Patrice, m’invita a trascorrere il weekend a casa sua. È di Gand, che dista da Colonia circa 250 chilometri.

Tiro un sospiro di sollievo.

La famiglia di Patrice è molto accogliente: ho ancora negli occhi un tavolo ricolmo di ogni ben di Dio per la prima colazione. Patrice tenta anche di insegnarmi a giocare a tennis sul campo annesso alla casa, ma desiste quasi subito. C’è un motivo per cui ho sempre giocato a basket: sono negato in quasi tutto il resto.

Dopo qualche altra peripezia - fra cui una notte in una pensione fatiscente - grazie ad alcuni contatti innescati a Brescia tramite il parroco (la forza della Chiesa), finisco per trovare una stanza ammobiliata presso una famiglia... di immigrati italiani!

Il figlio si trova negli Stati Uniti a studiare e quindi ha lasciato libera la sua camera al piano terra, con bagno, ma senza cucina. In quell’alloggio trascorro i successivi nove mesi. Per essere precisi, la durata della borsa di studio era sì di nove mesi, ma alla fine ne trascorsi a Colonia circa sette. Viste le prospettive quasi nulle di farmi riconoscere gli esami svolti all’estero, decisi infatti di dare in sede quelli che mi mancavano.

Forse questo è l’unico rimpianto: non aver sfruttato appieno il tempo che avevo a disposizione, tornando troppe volte e troppo spesso in Italia, anche con mezzi di fortuna. Ricordo con particolare soddisfazione un viaggio in autostop a bordo di un TIR austriaco fino al Brennero, per poi trovare posto su un pullman di una comitiva di gitanti del Lago di Garda di ritorno dal Trentino. O un viaggio fino a Milano con un’altra decina di persone a bordo di un gigantesco caravan, dotato di garage al cui interno era stata stipata una Mini (in Germania il car pooling o ridesharing era già una realtà molto prima di BlaBlaCar e compagnia).

Questi ritorni frequenti e avventurosi hanno anche un’altra causa: caso più unico che raro in tutt’Europa, ero partito con un vincolo sentimentale a Brescia, anche qui ignaro del cosiddetto «effetto Erasmus»...

Presso la famiglia di italiani mi trovai molto bene. Mi trattarono come un parente. Alla domenica mi offrivano il pranzo e la signora mi metteva nella sua lavatrice i panni sporchi. Ho un bellissimo ricordo di loro e - dopo tanti anni - continuiamo a scambiarci gli auguri per le feste.

Una volta trovata una sistemazione ebbi finalmente modo di concentrarmi sul resto. Stavo per scrivere «gli studi», ma delle poche lezioni che frequentai mi è rimasto impresso ancor meno.

Ci fu un seminario monografico di letteratura inglese, incentrato su The Secret Agent di Joseph Conrad. La professoressa chiese: «Quante volte avete letto il libro?» Io, mentendo, dissi due. Qualcuno disse tre, qualcun altro cinque. O erano dei secchioni maledetti o dei bugiardi peggio di me. Mi segnai le facce di tutti e - ovviamente - non ci scambiai mai più una parola.

Andai anche a qualche lezione di tedesco, sia di lingua che di letteratura, ma non mi è rimasto alcun ricordo, per cui deduco che non fossero entusiasmanti. Fin dall’inizio preferii trascorrere il tempo in attività culturali o pseudo-tali.

Da subito ebbi la sensazione che stavo replicando, a distanza, la vita che vivevo a Brescia. Non so dire se fu spirito d’adattamento, conformismo o stupidità. In definitiva facevo a Colonia quello che ero abituato a fare a casa: studiacchiare, scrivere lettere, leggere, andare al cinema, visitare mostre e musei e praticare sport, da solo o con qualche amico.

È trascorso tanto tempo e i ricordi hanno contorni sfumati.

Ci furono belle partite di pallacanestro in una palestra moderna, ma evidentemente mal progettata, perché venne chiusa di lì a poco a causa di infiltrazioni d’acqua. Mi sorpresi nel vedere come sul campo fosse facile capirsi, nonostante i miei tentennamenti con la lingua.

Cancellate le partite di basket, provai un paio di lezioni di kendo, la scherma giapponese, ma vidi subito che la disciplina orientale non faceva per me. Troppo silenzio, troppo rispetto per il venerato maestro. Io venivo da un’operazione al menisco e non riuscivo neppure a sedermi in ginocchio, figuriamoci il resto.

Restando in ambito sportivo, insieme a un paio di amici, vidi la mia prima (e finora unica) partita di hockey su ghiaccio. Il puck, invisibile. Il freddo, fin dentro le ossa. E nonostante la temperatura, birra a fiumi sugli spalti.

Collaborai fugacemente anche con un cinecircolo studentesco: poca roba, un paio di riunioni a plastificare le tessere degli associati e qualche serata al botteghino. Ma quell’esperienza mi sarebbe poi servita per lanciare il cineforum Detour, di cui ho già parlato in questo blog.

A Colonia c’è anche una cineteca e ne approfittai per vedermi qualche classico, fra cui Metropolis di Fritz Lang. Ci andai insieme a un amico e, com’era da aspettarsi, riuscimmo a farci redarguire perché commentavamo il film. In verità bisbigliavamo, ma il film veniva proiettato completamente muto, senza alcun sottofondo musicale, per cui in sala vigeva un silenzio tombale. Noi avremmo potuto lamentarci dell’odore emanato dalle pietanze nei Tupperware di molti spettatori. In sala non si poteva parlare, ma mangiare l’insalata di patate sì.

Per rimediare qualche soldo decisi di dare lezioni private di italiano. Avevo un paio di studenti: uno era un libero professionista che studiava italiano per fare import-export di olio extravergine d’oliva. Io ero un pessimo professore e lui decisamente negato: non cavava un ragno da un buco. Oltretutto stava dall’altra parte della città, per cui mollai quasi subito. L’altro studente studiava musica, mi pare, ma è solo una traccia evanescente, chissà chi era e che fine ha fatto.

Feci anche qualche scambio linguistico: io le insegnavo l’italiano e lei m’insegnava il tedesco. Quando vidi che avrebbe gradito scambiare anche altro, mi tirai indietro, non senza grandi patimenti da ventiduenne convinto d’essere il giovane Werther. Considerato come andò a finire con la persona che mi aspettava a Brescia, tutta quella moderazione rimase a fondo perduto.

Ci furono pranzi in mensa (dove - dopo il pasto - bisognava disporre il vassoio orientato nel modo giusto per non incorrere nelle ire delle precisissime addette), la scoperta del kebab quando ancora in Italia (almeno a Brescia) era una rarità, molte Kölsch, la birra di Colonia servita nei bicchieri a tubo da 20 centilitri, qualche festa.

Käthe Kolwitz, Pietà, 1903

In quei mesi a Colonia visitai anche la Fiera dell’arte (Art Cologne), il Museo Ludwig di arte contemporanea, visitai la EL-DE Haus (la centrale della Gestapo, la polizia segreta nazista; vedi anche il post L’incarnazione del male) e il Museo di Käthe Kollwitz (la Pietà qui sopra è una sua opera, che mi commosse). Vidi un concerto di Ryuichi Sakamoto a Düsseldorf e soprattutto feci un paio di viaggi indimenticabili.

Il primo dal 14 al 20 febbraio attraverso la Germania, con Patrice (il belga di cui sopra) e Laurence (una simpatica ragazza svizzera). A bordo dell’Opel Corsa bluette di Patrice arrivammo fino al Mare del Nord, passando per Brema, Amburgo, Lubecca, per poi entrare nell’ex Germania dell’Est, a Schwerin, poi a Berlino, quindi a Weimar, al memoriale di Buchenwald e di nuovo a Colonia.

L’Opel Corsa di Patrice

Io e Patrice a Brema

Noi tre a Berlino, Fontana del Nettuno

La prima sera Patrice ci sorprese dicendo: «Noi suoniamo qualche campanello e chiediamo se ci ospitano. Se non troviamo niente, andiamo in ostello». Il bello fu che trovammo un paio di famiglie disposte a darci un giaciglio, fra cui una nei pressi di Amburgo, mi sembra di ricordare, che oltre ad offrirci vitto e alloggio, ci fece ammirare una ricca collezione di fossili raccolti in zona, che aveva sistemato nel seminterrato come se fosse un museo. Ecco la foto della coppia insieme a noi sulla soglia di casa:

Studenti Erasmus in viaggio

Fu solo una settimana, ma mi sembrò un mese.

L'altro viaggio lo feci dal 14 al 22 aprile, stavolta in compagnia di due compagni di liceo che mi vennero a trovare da Brescia. Visitammo Aquisgrana e poi Amsterdam e qualche altra località dell’Olanda, andando a trovare altri amici che vivevano lì. Meno intenso, ma altrettanto bello.

E più di tutto ci furono le persone, tante, alcune dimenticate, altre che sono diventate amicizie. Ci si conosceva a lezione, più spesso fuori, in mensa, al bar, in quegli incontri fra studenti stranieri (i cosiddetti Stammtisch, i tavoli «fissi») in cui si parlava la lingua degli Erasmus, un tedesco raffazzonato intriso di parole in inglese e sorretto da tanti gesti e altrettanti sorrisi...

E fra tutte, tre in particolare.

Di Patrice ho già detto. Da allora ci siamo sentiti sporadicamente. Spero non me ne voglia se ho pubblicato qui le sue foto 😊. E sembra strano dirlo in un blog post, ma gli devo molto: m’insegnò a lanciarmi, a uscire dalla zona di comfort. L’idea di fare 1000 chilometri per tornare a casa in autostop fu sua. E non potrò mai ringraziarlo abbastanza per quell’invito nel momento più critico del mio soggiorno, quando ero sul punto di lasciar perdere e tornare a Brescia.

Bandiera del Belgio

Con Jaakko, studente finlandese, ci fu subito un’ottima chimica. È incredibile come due persone nate a quasi 3000 chilometri di distanza, in due culture profondamente diverse, possano intendersi così bene. Dopo l’Erasmus ci siamo rivisti a Barcellona, ci sentiamo saltuariamente via Facebook e un paio d’anni fa, come se fossero passati sei mesi e non venticinque anni, io e la mia famiglia siamo stati suoi ospiti a Helsinki, in un’altra vacanza indimenticabile.

E infine, Martin, all’epoca di Colonia un ragazzo americano che studiava Filosofia e oggi stimato professore universitario. Anche con lui era facile capirsi e fare discorsi più grandi di noi. Quando dovetti scrivere la tesi di laurea mi aiutò moltissimo nel reperimento di alcuni titoli che non trovavo in Italia. Nonostante il tempo e la distanza, siamo riusciti a restare in contatto fino ad oggi.

Quando ci diciamo cittadini del mondo, non intendiamo che l'amore della patria sia morto nell'animo nostro, vogliamo dire piuttosto che il nostro loco natío è per noi diventato ampio quanto la terra, che tutte le patrie si sono fuse in una sola, che il nostro amore si è diffuso a tutto il genere umano. - Mario Rapisardi, poeta.

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