Qualche pensiero sul fascino del male.
Ho finito da qualche ora di rivedere Arrivederci, ragazzi di Louis Malle, film del 1989 che narra le vicende di alcuni ragazzi di un collegio della Francia occupata nel 1944.
Sull’ultimo fotogramma del film, che raffigura uno dei protagonisti con le lacrime agli occhi, mio figlio Nicola, di cinque anni, ha chiesto «È finito il film? È finito il film? È finito il film? È finito il film?», quattro volte di seguito, incredulo, perché (lo cito quasi testualmente) «quando finiscono i film sono tutti contenti».
Pronuncia questa frase con la voce rotta, per poi prorompere in un pianto a dirotto, colmo di tristezza per quello che ha appena visto.
In realtà la visione di questo film in famiglia era indirizzata a Sara, sua sorella, che di anni ne ha dodici. L’occasione è stata quella della Giornata della Memoria, che si celebra il 27 gennaio, ricorrenza della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz.
Ora, mettendo un attimo da parte le mie capacità pedagogiche e l’opportunità o meno di far conoscere queste tristi vicende a dei bambini, il momento è appropriato per condividere una riflessione con i miei quattro lettori.
Perché sento la necessità di saperne di più sulla Shoah e, più in generale, sulle atrocità commesse durante la Seconda Guerra Mondiale? Perché io - e tanti altri - subiamo ancora il fascino del nazismo, fonte apparentemente inesauribile di storie, paradossalmente, d’intrattenimento?
È di poche settimane fa l’uscita di una nuova serie esclusiva su Amazon Prime Video intitolata Hunters e incentrata sui «cacciatori di nazisti», giusto per citare soltanto l’ultimo esempio di narrazione sul tema.
Vari studiosi sono giunti alla conclusione che nell’immaginario collettivo Hitler si è sostituito al diavolo come incarnazione del male e, come tale, ci affascina e ci ripugna al tempo stesso.
In un bell’articolo uscito qualche anno fa su El País Semanal, intitolato «Hitler inédito. La ‘atracción’ por el mal» che trattava proprio questo argomento, si citava fra gli altri lo storico del cinema e dei mezzi di comunicazione di massa Román Gubern:
«[Hitler] non era affascinante, ma era energico, con un tocco di misticismo e una retorica corporea assai elaborata, e, chiaramente, quello che ci attrae di lui è, in ultima istanza, il fascino del male, intravedere cosa c’è dietro la maschera».
Sembrerebbe che, in definitiva, subiamo il fascino del male come possibilità della natura umana, presente, ma da respingere.
Naturalmente in quest’equazione si aggiungono almeno altri due elementi: la Soluzione Finale, l’atto di annientamento degli Ebrei (e delle altre minoranze perseguite dal nazismo) come atto supremo di cattiveria, e Auschwitz come luogo-simbolo in cui si compie il male assoluto. Elementi collegati fra loro, ma ciascuno con una propria identità e specificità, che troppo spesso viene ignorata. Nell’immaginario collettivo i tre elementi si fondono in uno.
Come ricorda lo storico catalano Ferran Gallego nell’articolo sopra citato,
«Ci sono due cose che tutti sanno riconoscere: una svastica e il ritratto di Adolf Hitler. Hitler è per la maggioranza l’incarnazione del male, il suo volto, così come Auschwitz è il male concretizzato in un luogo».
Per quanto mi riguarda, l’ossessione per questo tema nasce da una frase banale, detta a tavola da mio padre quando qualcuno faceva il gesto di lasciare qualcosa nel piatto: «Ad Auschwitz ci avrebbero mangiato in dieci». Inizialmente non capivamo a che cosa si riferisse e forse quelle parole venivano pronunciate più come macabra battuta di dubbio gusto che come vero monito. Tuttavia, instillarono il dubbio di saperne di più.
Poi vennero gli studi, i viaggi, l’Erasmus a Colonia, in Germania, con la visita alla EL-DE Haus, la centrale della Gestapo (la polizia segreta) e al campo di Buchenwald durante un viaggio nell’ex Germania Est, la lettura del Konzentrationslager Dokument F 321, un libretto dalla copertina bianca con le testimonianze dei sopravvissuti archiviate agli atti del processo di Norimberga.
Ricordo distintamente la sensazione di pesantezza alla schiena (non saprei descriverla in altro modo) mentre camminavo, insieme ad altri due compagni di viaggio, sulla spianata di Buchenwald dove una volta c’erano le baracche, dopo aver attraversato il cancello con la scritta «Jedem das Seine», «A ciascuno il suo».
E mentre ne scrivo, mentre cerco online informazioni per recuperare dettagli con cui far riaffiorare il ricordo, riconosco una volta di più la mia motivazione, il perché quest’argomento non smetta di coinvolgermi: è tutto talmente «enorme» che cerco costantemente prove che fughino ogni dubbio.
Posso capire (o almeno provarci) la dinamica di un omicidio commesso d’impulso, mettiamo anche premeditato, per vendetta, per gelosia, per rabbia.
Posso forse afferrare (non dico comprendere) l’azione scellerata di un assassino seriale, di un individuo che toglie la vita a molte persone.
Ma messo di fronte a una tragedia delle dimensioni dello sterminio nazista degli oppositori, davanti a 6 milioni di morti uccisi in maniera sistematica secondo una logica da burocrati, ecco, il mio cervello va completamente in tilt, come quando mi parlano di distanze siderali.
Un libro mi è servito a capire il «cosa» e il «come», forse il libro definitivo su come tutto questo sia potuto succedere: La distruzione degli ebrei d’Europa di Raul Hilberg, il lavoro di una vita. Con altri libri ho tentato di capire il «perché» (vedi più in basso).
Senza alcun filmato d’archivio, con le immagini degli stessi luoghi visitati ad anni di distanza, il film Shoah di Claude Lanzmann è invece il documento grafico imprescindibile. Ci sono le voci dei sopravvissuti, dei carnefici e quella dello stesso Hilberg, le cui parole ancora risuonano nella mia testa.
And the Final Solution, you see, is really final. Because people who are converted, can yet be in secret Jews. People who are expelled can yet return. But people who are dead will not reappear.
(Raul Hilberg intervistato da Claude Lanzmann)
(E la Soluzione Finale, vede, è davvero finale. Perché le persone che vengono convertite, possono continuare a essere ebree in segreto. Le persone espulse, possono sempre tornare. Ma le persone morte, non ricompariranno).
L’intervista integrale con Hilberg si trova sul sito dell’United States Holocaust Memorial Museum, con la trascrizione in inglese.
Ma la portata di quest’azione atroce è in buona dose per me ancora inafferrabile. Per questo continuo a leggerne, a interessarmene. E purtuttavia, mi resta sempre il dubbio che in fondo ci sia anche una buona dose di curiosità morbosa nei confronti delle atrocità commesse. O è proprio questo il «fascino del male»?
Non ho risposte.
Ringrazio l’amico Carlo Susa per i suggerimenti bibliografici.