Resoconto della mia esperienza con il COVID-19.
Non mi piace parlare di salute, men che meno della mia, ma vista l'eccezionalità della situazione ho pensato che scrivere un breve resoconto della mia esperienza con il Coronavirus potesse essere utile ai fini "storici", persuasivo per chi ancora dubita dei vaccini e magari confortante per chi sta vivendo o ha vissuto la stessa esperienza.
I primi sintomi compatibili con il COVID-19 (userò il maschile, grammar nazi fatevene una ragione) sono comparsi il 24 maggio 2021. Dolore muscolare, soprattutto alle gambe e malessere generale.
Cinque giorni prima, il 19 maggio, avevano diagnosticato il virus a mia moglie. Il giorno dopo sia io che i miei figli ci siamo sottoposti a tampone, negativo. Nonostante le precauzioni adottate in casa, quando vivi in 75 metri quadrati e hai un solo bagno è difficile non contagiarti.
Va detto che dal primo confinamento, marzo 2020, a oggi, Dori e io siamo stati sempre molto attenti: mascherina, nessun viaggio, pochi contatti sociali e quei pochi sempre all'aperto. Senza arrivare agli eccessi maniacali (tipo lavare le scatolette della spesa) posso affermare che se ci siamo contagiati noi davvero può contagiarsi chiunque.
Non sappiamo come abbia contratto il virus Dori (è impossibile saperlo), ma tutto indica una sessione di fisioterapia in uno studio senza ventilazione. La fisioterapista ha manifestato i sintomi qualche giorno prima di Dori. Pensiamo che l'origine sia quella anche perché tutti i tamponi realizzati nella scuola in cui lavora Dori, ai colleghi e agli alunni, sono risultati negativi. Non l'ha preso a scuola, apparentemente, a dimostrazione che le misure adottate negli istituti scolastici hanno funzionato (in grande maggioranza e qui a Badalona, quanto meno).
Dori ha manifestato vari sintomi, più severi all'inizio, ma non è stato necessario ricovero. Aveva tosse, febbre e forte mal di gola, poi malessere e tachicardia. La radiografia al torace era compatibile con la polmonite da COVID. Al momento sta bene, le resta un po' di tosse saltuaria e sta anche recuperando il gusto e l'olfatto che aveva perso completamente. Grazie al cielo, né Sara né Nicola sono stati contagiati e sono sempre stati bene, per quanto si possa star bene confinati in casa e vedendo i genitori ammalati.
Per quanto mi riguarda invece, i sintomi leggeri sono durati 3-4 giorni. Poi mi è venuta la febbre, quasi mai sopra i 38,5 gradi. Mi è durata tutta la prima settimana, unita a spossatezza, dolore articolare, nausea, bocca amara e alterazione del senso del gusto (disgeusia): persino l'acqua del rubinetto aveva cambiato sapore (amarissima).
Ripeto il tampone il 28 maggio. Il test rapido dà negativo, ma il tampone PCR SARS CoV 2 ambulatoriale invece è positivo.
Il malessere generale continua. Faccio fatica a mangiare, non mi entra nulla. Continua la nausea, fastidiosissima. Qualche episodio di vomito e diarrea, malessere accentuato e continuo. Non ho tosse, né espettorazione, né sensazione di fiato corto. Avverto solo un leggero fastidio al torace.
Fino a quel momento il contatto con i medici avviene per telefono. Mi consigliano di prendere paracetamolo per tenere sotto controllo la febbre, di bere molto e di restare isolato.
La mattina del 31 maggio, in bagno, ho un quadro di presincope, cioè sono sul punto di svenire, ma non perdo del tutto conoscenza. Sto veramente male, la nausea è continua e il malessere forte, anche perché la notte dormo male, a volte mi manca un po' il respiro.
Richiamiamo il numero per l'emergenza COVID, il 061. Il sanitario che ci risponde decide che è il caso di mandare un'ambulanza per poter essere visitato in ospedale.
Arriva un'ambulanza del SEM (il Sistema di Emergenze Mediche locale) dopo pochi minuti. Un infermiere gentilissimo mi accompagna per le scale e poi mi fa distendere sul lettino dell'ambulanza. In pochi minuti raggiungiamo l'ospedale universitario della città, Hospital Germans Trias i Pujol, noto come Can Ruti, un centro di eccellenza nazionale e internazionale, con vari laboratori di ricerca.
Dopo la visita al pronto soccorso, i medici decidono di ricoverarmi nei cosiddetti "moduli COVID" un padiglione provvisorio di quattro piani costruito in pochi mesi per far fronte all'emergenza della pandemia.
La radiografia ai polmoni presenta "dubbiose opacità polmonari nell'area perilare dell'emitorace sinistro". Una seconda lastra dopo 48 ore conferma che l'esame non attesta in modo certo la polmonite per COVID. Esiste una scala, chiamata CO-RADS, che valuta il sospetto di coinvolgimento polmonare di COVID-19 su una scala dall'1 (molto basso) al 5 (molto alto). Le mie lastre hanno dato 2, cioè il livello di sospetto è basso.
Il 2 giugno mi trovano la saturazione basale (l'ossigeno nel sangue) fra 91 e 94% dopo averla controllata con diversi pulsossimetri. Il giorno precedente la saturazione basale era 96%, continuavo ad avere febbre persistente superiore ai 38 gradi, ed era già il 9º giorno dell'inizio dei sintomi.
A quel punto la dottoressa che mi segue decide di iniziare un trattamento specifico per COVID-19 con remdesivir, desametasone endovena ed eparina a basso peso molecolare sottocutanea, più ossigenoterapia con n.g. a 2 lpm.
L'ossigenoterapia nel mio caso è consistita nella somministrazione di ossigeno attraverso cannula nasale, nota come "occhialini", un tubo flessibile che termina in due cannucce per le narici attraverso le quali entra l'ossigeno nel naso. Non è particolarmente scomoda, ma a lungo andare secca un po' le pareti delle narici.
Da quel momento ho mantenuto la saturazione al 97% e sono stato incluso in uno studio clinico Insight 014 promosso dall'Università del Minnesota e finanziato dal NIAID e dal NIH degli Stati Uniti. Mi viene somministrato o un tipo di medicinale chiamato anticorpo monoclonale neutralizzante (nMAbs) codificato AZS7442 e prodotto da AstraZeneca o un placebo (lo saprò soltanto al termine dello studio).
Ho presentato una buona tolleranza al trattamento; solo un po' di nausea 24 ore dopo la prima dose del remdesivir, che mi è stato dato per 5 giorni.
Da un esame del sangue eseguito il 7 giugno si notava un aumento delle transaminasi, che potrebbe essere legata al remdesivir o all'anticorpo monoclonale. In ogni caso ripeterò l'esame fra qualche settimana per confermare che fosse dovuto a quello e non ad altre patologie legate al fegato.
Dall'assunzione del farmaco antivirale ho presentato una buona evoluzione clinica con miglioramento dell'astenia e dell'anoressia, come indicato sul referto. Cioè ho ripreso a mangiare normalmente e non avevo più la sensazione di esaurimento fisico e malessere. Dal 4 giugno non ho più avuto febbre. Mi hanno ritirato l'ossigenoterapia e mi hanno fatto camminare per i corridoi "con buona tolleranza". A quel punto hanno deciso di dimettermi, poiché la saturazione era fra il 97 e il 99% e mi sentivo molto meglio.
Il 7 giugno sono così tornato a casa, con 6-7 chili di meno e ancora un po' frastornato.
L'unica conseguenza, abbastanza difficile da gestire e che impressiona un po', è stata la disfonia, cioè la mancanza di voce. Ad oggi, 26 giugno, la sto recuperando, ma non è ancora al 100%.
Il referto medico che mi hanno dato quando mi hanno dimesso riportava la seguente diagnosi:
Nei sette giorni di ricovero non ho mai oltrepassato la soglia della gravità. Tuttavia, è un'esperienza che non auguro a nessuno, perché la sensazione di spossatezza è davvero intensa. Non credo di aver mai provato nulla di simile.
In ospedale ho trovato persone molto empatiche, professionali e sempre cortesi, tutte senza eccezioni, che ringrazio pubblicamente.
Qui potremmo aprire una lunga parentesi sul trattamento che molti paesi (fra cui l'Italia e la Spagna) hanno riservato al personale sanitario negli anni, con i noti tagli alla spesa, parentesi che non apro neppure. Mi limito a riportare quanto affermato dalla dottoressa che mi aveva in cura:
Sono mesi che faccio 60-70 ore settimanali.
Oppure i discorsi fra infermiere, in cui una diceva di essere contentissima di trovarsi in quell'ospedale, perché nel precedente le facevano contratti settimanali, avvisandola quasi di giorno in giorno sugli orari che doveva coprire.
Oltre a questo, resta un po' di rammarico, perché al momento del contagio Dori doveva essere già vaccinata da tempo, ma a causa delle polemiche sul vaccino AstraZeneca, la somministrazione era stata interrotta proprio poco prima che toccasse a lei. Se lei fosse stata vaccinata il decorso sarebbero stato molto più sopportabile per entrambi.
Ecco, dunque, se c'è ancora qualcuno che ha dubbi sull'importanza del vaccino, spero che questo resoconto serva a farlo ragionare. Ma lo dubito. Non bastano opinioni molto più autorevoli, figuriamoci la mia.
In ogni caso sia io che Dori ora stiamo bene, non ancora recuperati appieno, ma quasi.
Colgo l'occasione per ringraziare tutti quelli che ci hanno manifestato la loro vicinanza e sostegno durante la malattia con chiamate, messaggi o favori vari. Grazie da parte di tutti noi.